RubriCate: “Una notte e l’altra. Poesie” di Maria Luisa Lamanna (I buoni cugini editori)

Quello che colpisce della poesia di Maria Luisa Lamanna (nella foto in basso) è il nitore chirurgico della lingua e la compostezza delle riflessioni sull’amore estorto e celebrato, nella vita e nei versi, in brevi incontri che hanno una loro fulminea perfezione. Dalle prime pagine della raccolta poetica “Una notte e l’altra” (I buoni cugini editori), così sommesse, nel loro arreso accoramento, affiora un’attitudine sentimentale intimista ed estetica in cui la fisicità si stempera e si spoglia del colore e dell’impatto tra i corpi per divenire una trasposizione bicromatica che attinge le sfumature tra gli estremi del plenilunio e della tenebra.

Molti sono infatti i rimandi al candore della neve. E solo sporadicamente si accenna all’azzurro. I colori, rappresentativi forse di una vitalità inevitabilmente scomposta e contundente, sono raramente nominati.

L’amore, pervasivo e struggente, nella sua saltuarietà, si colloca ai margini o nelle minime smagliature di un tempo scandito con implacabile regolarità, precipitando nelle insenature poetiche. Che sia o meno l’esito di una trasgressione, parziale,
discutibile o deludente, penetra nella sensibilità e nei versi dell’autrice e si cristallizza in una inespugnabile incorruttibilità.

Tutt’attorno, la vita brulica di défaillance. Si consuma. Naufraga.

Obbedisce a imposizioni necessarie.

Ma l’amore levigato dalla poesia è un sentimento gratuito, spontaneo, senza pedaggi o costrizioni.

Quasi l’esito di una trasmutazione alchemica.

Persino la gestualità amorosa è come cesellata. Il corteggiamento, l’insufficienza, gli sfioramenti, divengono gli elementi essenziali di una liturgia, prima di tutto poetica, ma anche animica, modulata su una coazione a ripetere che rinnova l’errore insufflandovi bellezza e dignità.

Poesie che si susseguono come un battito cardiaco regolare e perfetto che pulsa per duecento pagine, disturbato talvolta da aritmie che aprono il varco a scariche emozionali che investono anche il lettore. La nostalgia struggente per il padre, patria primigenia. Il sospetto dell’inadeguatezza sentimentale. La delusione. Il giudizio degli altri che aleggia attorno alla vita.

Una vita, anche interiore, che in queste poesie è depurata delle sue componenti sensoriali, e narrata con parole che assomigliano, nella loro essenziale, raffinata efficacia, a un nitido tratteggio. Molti sono infatti i rimandi alle figure geometriche, con la loro prevedibile e rassicurante perfezione.

In un’epoca estroflessa ed esplicita, talora a livelli di macelleria, anche sul fronte artistico, i versi di Maria Luisa Lamanna colpiscono proprio per il loro raccolto pudore, per l’incorporea e dolente trasparenza.

Sottese, alla sua poetica, l’impraticabilità dell’amore, l’impossibilità della fusione e la lucida resa a un compromesso oliato da cui enucleare la parziale bellezza.

Occorre una immane forza, per rintuzzare il magma del dolore e il pressante disordine delle pulsioni in un ordito poetico quasi orafo, ma Maria Luisa Lamanna ci riesce, e questa è forse tra le caratteristiche più affascinanti della sua opera. Questa leggerezza di farfalla ottenuta scuotendo universi.

Un verseggiare cadenzato, lucente, riflessivo e talora sussurrato. Accorato e composto. Quasi ermetico, fitto di simbolismi.

E una lettura da cui riaffiorare con la sensazione di aver a lungo vagato, da soli, tra i chiaroscuri di uno splendido plenilunio.

di Caterina Falconi

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