E se Didone non si fosse uccisa e avesse proseguito il viaggio al posto di Enea?
Il viaggio di Ulisse raccontato dalle donne che incontrò
Quattro incontri con gli dei, per conoscere meglio le loro vicissitudini e i loro segreti

E se Didone non si fosse uccisa e avesse proseguito il viaggio al posto di Enea?
Il viaggio di Ulisse raccontato dalle donne che incontrò
Quattro incontri con gli dei, per conoscere meglio le loro vicissitudini e i loro segreti
di Debora Attanasio, scrittrice e firma storica di Marie Claire.
“Vi metto in redazione anche un maschio, così prende un po’ le redini della situazione”. Lo ha detto uno degli editori con cui ho lavorato in 23 anni da giornalista, una frase che potrebbe sintetizzare un po’ la situazione di base.
La rivista era un femminile, andava già bene di suo con la redazione di sole donne e quando l’editore ci mandò “il maschio”, ha comunque fatto comodo per preparare i caffè. Nel frattempo sono cambiati i tempi, gli uomini hanno smesso di leggere i periodici maschili e i giornalisti rimasti a spasso hanno cercato di gestire le redazioni dei femminili. Dopo una sventagliata di luoghi comuni e le proteste delle lettrici, il tentativo è fallito.
Ora le giornaliste se la cavano abbastanza bene perché l’80% dei lettori è femmina. Peccato ancora per la resistenza degli editori a mettere donne al comando dei quotidiani, e per l’ostinazione delle direttrici a voler essere chiamate “direttore”. Prima o poi passerà.
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SE PRENDI UN CAFFè CON ME, IO TI TROVO LAVORO
di Claudia Sarritzu, giornalista
Il maschilismo nel giornalismo è dato in primis da un dato statistico. Che è sotto gli occhi di tutti e tutte. La maggior parte delle giornaliste in Italia è donna ma quasi tutti i direttori e capi redattori sono uomini.
In secondo luogo abbiamo la figura importantissima del titolista, sempre meno qualificata e diffusa (questo a causa del taglio del personale nelle redazioni). Anch’essa spessissimo svolta da maschi o da colleghe inserite in un contesto maschilista che fanno le veci dei loro colleghi, distratti su tutto quello che concerne il senso di responsabilità nella diffusione dell’unico messaggio davvero letto da chiunque, il titolo appunto, che deve essere realizzato in equilibrio tra verità, sensibilità, rispetto per i soggetti di cui parla, mai giudicante. Mai fraintendibile. Ci vuole talento. Ma soprattutto buon senso.
Terzo, come in tutti i lavori ci sono le storie personali. A 21 anni un giornalista molto importante e anziano mi pose davanti a una scelta: se vuoi collaborare con noi devi accettare di vederti con me per un caffè? Quel caffè non aveva nulla a che fare con un colloquio di lavoro. I colloqui di lavoro si svolgono nei posti di lavoro, non nei bar.
Dissi di no. E siccome avevo 21 anni, corsi a raccontarlo alla mia mamma con un senso di frustrazione e indignazione.
La 36 enne di oggi, che senza dover “prendere caffè” con nessun maschio abusante si mantiene facendo questo lavoro bellissimo, vorrebbe abbracciare quella ragazzina con la schiena dritta. Non c’è nulla di più bello che dire No a questi maschi piccoli piccoli.
Sul comodino della Rambaldi
Matteo Strukul – Padova – Laureato in giurisprudenza e docente di Sceneggiatura Interattiva presso il Link Campus University di Roma, ha vinto il Premio Bancarella col romanzo storico Medici. Una dinastia al potere e il premio Salgari col suo Giacomo Casanova, da cui è stato tratto anche il noto musical di Red Canzian. Ha inoltre pubblicato quattordici romanzi, due biografie musicali, cinque albi a fumetti, due novelle in formato elettronico e molti racconti in antologie.
“Entrato nella camera sotterranea, Kaspar venne aggredito da un tanfo infernale. Portò il braccio al naso, tentando di proteggersi da quell’odore mefitico. Il cadavere di Giuseppe Filangeri era orribile a vedersi. Adagiato su un tavolo di pietra, aveva la gola segnata in modo impressionante, per via della corda con la quale si era impiccato. Non solo. A causa di un taglio profondo, le viscere fuoriuscivano, violacee, dal ventre. L’odore era intollerabile. D’altra parte non era certo la prima volta che Kaspar aveva a che fare con il puzzo di morte. Ne distingueva il lezzo fin da lontano, ben prima che il campo di battaglia si coprisse di cadaveri o che la carne cedesse sotto il morso della lama. Era il suo mestiere, quello di avere a che fare con la Grande Mietitrice.”
È l’antivigilia di Natale, nevica, e Marco, uno studente austriaco di 27 anni, deve assolutamente ultimare la sua tesi su San Nicolò da consegnare di lì a poco. Ed è proprio scavando tra i volumi del dipartimento di Storia Medievale che si imbatte in un curioso manoscritto che narra le gesta del cavaliere Kaspar Trevi dell’ordine di San Bernardo di Chiaravalle e della Confraternita dei Cavalieri Esorcisti che combattono il demonio.
(la recensione prosegue a p. 2)
Recensione di Patrizia Debicke
Cominciamo dal titolo. Per i genovesi starebbe a dire : “non si sa mai” o “non sia mai”, poi più letteralmente mano a mano, e infine passando dal “va a finire che” è arrivato oggi perfino a significare : “non si sa mai che”… Tutto ciò serve in qualche modo a spiegare perché Lorenzo Beccati, dopo i suoi bei libri che narrano di storia genovese lontana o più recente, abbia scelto di chiamare così questa sua gustosa raccolta di tanti fatti e fatterelli curiosi e magari quasi dimenticati che ha incontrato e scoperto qua e là negli anni.
E quindi il suo Minimàn si rivela un piccolo compendio di impressioni su reali accadimenti che Lorenzo Beccati ci garantisce tutti reali , suggeritegli dai vecchi appunti e dalla sua memoria.
E allora cominciamo.
Cosa avranno mai in comune Buffalo Bill, gli accampamenti indiani e l’immenso circo, Jean- Michel Basquiat il “grandissimo, costosissimo (lo si reputa l’artista più pagato al mondo), geniale pittore e graffitaro ” , la spaventosa storia di Frankenstein concepita dalla sua triste creatrice, l’espressiva e generosa comicità di Stanlio e Ollio, il continuo triste e sofferto vagabondare della principessa Sissi, le “sconfinate” lenzuola dei letti usati dai Beatles, la scultorea plasticità di Maciste, la notte di nozze non consumata di Carlo Goldoni e l’acquarello mai potuto terminare di Winston Churchill?
Hanno, sissignori, tutti in comune la circostanza di avere soggiornato nella Superba e nei suoi dintorni.
Con Minimàn scopriremo infatti cosa ha portato tutti questi personaggi, tanto diversi tra loro per tempi, abitudini e gusti, a ritrovarsi per una qualche diversa ragione collegati a Genova.
(la recensione prosegue a p. 2)
Recensione di Luciana Fredella
Il titolo “Dentro la gabbia“ non poteva che essere il più adeso al romanzo di Stefano Cosmo. Le gabbie in questa storia sono tante e coinvolgono tutti i protagonisti.
Dentro la gabbia dei suoi sensi di colpa, delle sue passioni e delle sue ossessioni vive Moreno Zanon detto Barba, da sempre innamorato della moglie di Marco, suo fratello. Un ex delinquente che ha deciso di dare una svolta legale alla sua vita e lo ha fatto dedicandosi, con successo, ai combattimenti di arti marziali. Tuttavia il passato pare riaffacciarsi nella sua vita a causa di un debito contratto da Marco. Il ritorno negli ambienti della malavita permetterà non solo a lui ma anche al lettore, di scoprire una realtà fatta di sfruttamento di chi non ha nulla da perdere e forse qualcosa da guadagnare.
Dentro la gabbia del suo lavoro, del suo senso di giustizia e forse anche del suo rancore, vive il maresciallo di Ciolla.
Dentro la gabbia della rabbia, della sofferenza e della speranza vive Lili, moglie di Marco.
Tuttavia il passato pare riaffacciarsi nella sua vita: suo fratello Marco, tossico-dipendente, in carcere per omicidio, viene accoltellato a causa di un debito non pagato. Per salvare la vita al fratello ma soprattutto per evitare pesanti ripercussioni su Lili, di cui Moreno stesso è da sempre innamorato, il Barba decide di accettare il ricatto di Trabacchin, un potente malavitoso, lottando per lui in un’arena clandestina, il Combat Circus.Una realtà fatta di miserie umane troppo spesso nascoste perché vergognose e illegali.
(la recensione prosegue a p. 2)
Recensione di Marilù Oliva
«Perché il mito – è innegabile – è meraviglioso. E ci parla di un mondo meraviglioso in cui mortali e immortali vivevano insieme, si parlavano, si toccavano, si univano gli uni con gli altri. In cui la vita era soprattutto fisicità, concretezza. Corpo – appunto – ben più che spirito»
“I tendini di Zeus. Corpo, anima e immortalità nel mito greco” (Solferino) è un saggio di Laura Pepe, docente di Diritto romano e Diritto greco antico all’Università degli studi di Milano ma anche divulgatrice scientifica per il canale televisivo Focus.
Si tratta di un piacevole viaggio in un tempo senza tempo, quello del mito greco. E in particolare, qui viene approfondito il rapporto della cultura greca con il corpo – ma anche con la morte e quindi con l’immortalità.
S la morte in Omero è vista come qualcosa di negativo che ti strappa dai piaceri della vita, chi vive nell’Oltretomba è ridotto a soffio vitale, la “psyche”, un fantasma evanescente che deve essere rinvigorito con offerte. Molto interessante il rimando etimologico-lessicale che ci fa entrare più a fondo nella pregnanza dei significati. E così scopriamo, ad esempio, che la parola “soma” da cui deriva un numero notevole di parole attuali che lo considerano come “il corpo” (psicosomatico, cromosoma, somatizzare, etc), è in realtà la salma, il cadavere. E in Omero non esiste un termine che indichi il fisico vivo come lo consideriamo noi. Il corpo umano e quello divino sono epicentro della narrazione attraverso le loro possibilità e i loro segreti: cosa distingue i Divini, cosa li rende immortali? Cos’ha di speciale il loro sangue incorruttibile?
Un libro snello e ritmato, con riferimenti precisi all’epica, che ci fa toccare la pelle degli dei e degli eroi. Con acribia e chiarezza, la professoressa Pepe ci conduce in quella soglia proibita che è il limite tra la vita e la morte, ripercorrendo, ad esempio, un duello mitico – quello tra Ettore e Achille – che riserba una sorpresa stupefacente. Oltre all’esito, c’è la sostanza degli eroi, queste creature immortali soltanto nell’epica e nei ricordi, ma tanto disposte a sacrificarsi in battaglia, come se morire in guerra fosse il più nobile degli epiloghi:
«Questa morte, per i Greci, è una morte bella, la sola morte bella: perché sottrae il corpo alla sua naturale corruzione, lo strappa al decadimento della vecchiaia e lo immortala in quello che Omero chiama “hébes ànthos”, il fiore della giovinezza».
Su Micromega continua l’indagine sul sessismo nel mondo culturale
di Marilù Oliva
Il mio articolo sul maschilismo in editoria ha scoperchiato di nuovo il vaso di Pandora. Colleghe indignate, ferite, arrabbiate, umiliate, professioniste a cui sono state chiuse le porte per colpa di un rifiuto a delle proposte – spesso volgari. Sarebbe bello che ci unissimo, al di là delle categorie, e che partisse un nuovo #metoo dal mondo culturale, una sorta di #mecult: un movimento che facesse luce su questi aspetti retrogradi e li rinnovasse, ricostruendo il sistema su basi paritarie e veramente democratiche.
Molte autrici/giornaliste/intellettuali mi hanno scritto privatamente per raccontarmi la loro testimonianza e ne è uscito un sommerso preoccupante. Parlo di donne che hanno un curriculum tosto, sudato, conquistato spesso senza protezioni e senza garanti. Diverse di loro hanno subito molestie. Come è accaduto – tra l’altro più volte – al Premio Rapallo Francesca Maccani, che racconta di un affermato giornalista, un nome noto a livello nazionale, che, dopo qualche messaggio per concordare un’intervista, le ha mandato la foto del suo apparato genitale con scritto: «Quanto ti piacerebbe parlare con questo microfono?». Sappiamo tutte cosa abbia comportato il suo rifiuto: intervista andata a monte, niente visibilità. Una visibilità che spesso viene offerta ai nostri colleghi maschi senza che si chieda loro di scendere a compromessi, anzi: il più delle volte attorno a loro si crea una sorta di abbraccio ovattato, spontaneo e gratuito per cui vengono promossi, pubblicizzati, accolti solo in quanto uomini. Faccio uno tra mille esempi. Vedevo sui social una libraia toscana invitare autori, osannarli nell’attesa del loro arrivo, poi portarli a cena e glorificare ogni momento attraverso foto e fervide frasi traboccanti di stima (quando non adorazione). Con le poche donne che invitava era sempre più freddina. Quando andai io, fu tutto molto parco: niente pubblicità entusiasta, niente cena, forse noi scrittrici dovevamo ringraziare già per essere state inserite in una rassegna quasi esclusivamente maschile? Per fortuna non sono tutte così le libraie, ne conosco tante in gamba, che portano avanti le loro iniziative con spirito egualitario. Una di queste è Laura Orsolini, che è anche scrittrice e promotrice di progetti di lettura. Proprio lei mi ha svelato una triste verità con cui deve fare i conti tutte le volte che propone delle opere alle insegnanti (sottolinea il femminile): «Nelle scuole sono le insegnanti stesse che spesso prediligono adottare il libro di uno scrittore maschio piuttosto che quello di una femmina».
La scrittrice spezzina e sceneggiatrice di fumetti Susanna Raule inquadra bene la parte sotterranea del problema, senza fare di ogni erba un fascio. Del resto, lei, come tutte noi, ha potuto anche beneficiare di collaborazioni positive con colleghi maschi e ha ben chiaro che non si tratta di una guerra tra sessi, ma di una lotta costante contro una mentalità corrosiva e consolidata da secoli. Nella sua carriera non sono mancati la delegittimazione sotterranea, il paternalismo, la marginalizzazione. Fa parte di un gruppo, Moleste, che ha come obiettivo quello di combattere i comportamenti abusanti nel mondo del fumetto. Quello che chiedono dovrebbe essere scontato, invece in Italia non lo è: «Vogliamo imparare in un ambiente che ci rispetti come potenziali professioniste. Vogliamo essere giudicate come artiste, non come donne. Non siamo obbligate ad accettare un invito a cena per parlare del nostro lavoro. Non siamo tenute ad andare a casa di nessuno per mostrare il nostro portfolio. Non siamo “belle”, “tesoro”, “amore”. Siamo professioniste e come tali vogliamo essere considerate».
(l’articolo continua a pagina 2 o su MicrOmega)
Recensione di Raffaella Tamba
Già noto come autore young adult e non solo, per il successo di “Milo detective per amore”, Giancarlo Vitagliano, cardiologo napoletano con la passione per la lettura di fumetti e la scrittura di romanzi sfumati di giallo e nero, esce con una raccolta di tre racconti, o meglio di un romanzo breve, che dà il titolo al volume, Fraises, e due racconti, Buio e Il collega, accomunati fra loro da alcuni elementi strutturali e dai temi trattati: la narrazione in prima persona del protagonista, una figura misteriosa che irrompe nella sua vita ponendolo di fronte a domande su di lei, sul suo passato e sul motivo per il quale le loro strade si sono incrociate; motivo che per tutte e tre le storie è un torto subito che produce un desiderio di riscatto o vendetta.
Il romanzo Fraises è costruito sul tema dello scontro fra integrità morale e violenza subita. Lorenzo Maniscalchi, impiegato in una banca, ha sempre svolto il proprio lavoro con impegno e diligenza.
(la recensione prosegue a p. 2)
di Sacha Rosel
Suo è il volto-simbolo di alcune delle fotografie più famose di Man Ray – si pensi a Le Baiser (Il Bacio) del 1930, così come sua è la sagoma ritratta in alcune foto di moda ormai diventate iconiche, quali The divers (I tuffatori, 1930) di George Hoyningen-Huené, o la presenza statuaria del film Le sang d’un poète (Il sangue di un poeta, 1932)di Jean Cocteau. Eppure, Lee Miller (1907-1977) fu ben più che una semplice modella o musa ispiratrice. Testimone e insieme protagonista dello scardinamento dada e surrealista, Miller collaborò fianco a fianco di Man Ray dal 1929 al 1932 condividendone la passione per la fotografia, in particolare scoprendo in questa arte un’inedita libertà di sperimentare e creare analogie sovversive.
Notevole è ad esempio l’effetto provocatorio della sequenza Untitled (Senza titolo, ridenominata Severed Breast from Radical Mastectomy, Seni asportati durante una mastectomia, 1930), dove Miller utilizzò due mammelle asportate chirurgicamente da alcuni medici prendendole dalla tavola operatoria e ritraendole come cibo dentro un piatto posto su una tavola imbandita.
(l’articolo continua a pagina 2)
Sul comodino della Rambaldi
Massimo Picozzi in qualità di perito e consulente si è occupato dei casi di cronaca nera più discussi degli ultimi anni. Dal 2009 conduce CSI Milano su Radio 105 ed è opinionista della trasmissione Quarto grado. Autore di molti libri tra i quali Verbal Warrior. Il potere delle parole per disinnescare il conflitto ha pubblicato con Carlo Lucarelli, per Solferino, Nero come il sangue e Nero come l’anima.
“Era una donna dal carattere forte, che resisteva benissimo. L’interrogatorio, nel complesso, sarà durato cento ore ed è stato duro. La Fort ammetteva la relazione con Ricciardi, tutto il contesto; ammetteva tutto quello che le faceva comodo, ma poi, quando si arrivava al dunque, alle ore 20 di quel 29 novembre, ecco che trovava l’alibi nonostante le nostre domande incalzanti e continue. Ma durante un interrogatorio, non bisogna fermarsi ai primi ostacoli. Bisogna esaminare la personalità che si ha davanti, trovare una breccia nell’animo dell’interrogato e incunearsi. Ma non condivido l’idea che, pur di ottenere una confessione, un poliziotto possa utilizzare mezzi che infrangono la legge. Una confessione ottenuta così non può soddisfare l’inquirente. Fra la voce dell’imputato e la voce della mia coscienza, io scelgo sempre di privilegiare la voce della mia coscienza.”
Cinema e letteratura sono pieni di investigatori e detective, ma cosa conosciamo davvero di quelli veri? Poco e niente. Da giornali e televisione apprendiamo le gesta dei criminali e l’eventuale risultato finale delle indagini, ma del vero lavoro dei poliziotti che c’è dietro non sappiamo nulla.
Con le dodici storie vere di Detective, Massimo Picozzi, ci fa finalmente conoscere le epiche sfide tra detective e antagonisti che hanno lasciato il segno.
(la recensione prosegue a p. 2)
Articolo e foto di Claudio Guerra
Si è chiusa domenica 12 marzo 2023 la seconda stagione in tour del musical “Casanova opera pop”, con la terza replica al teatro EuropAuditorium di Bologna, la prima delle quali aggiunta come pomeridiana del sabato per soddisfare le tante richieste.
Si è chiusa trionfalmente, con merito, in odore di una terza e dell’esportazione su palcoscenici esterni al circuito italiano. Un premio anche alla sua stentata genesi, frenata come tutti gli eventi teatrali recenti dalla plumbea cappa gettata dalla pandemia, e ai suoi indiscutibili pregi.
Di questo musical tratto dal romanzo best seller di Matteo Strukul “Casanova. La sonata dei cuori infranti” posso però innanzi tutto dire quello che banalmente si dice di tante opere derivate, cioè che preferivo il libro. Questo non perché quanto messo in scena non mi sia piaciuto, anzi, ma perché è molto difficile mantenere tutto il senso di una narrazione quando devi passare da un media che ti permette tempi più lunghi e maggior uso di sfumature a uno dai tempi più ristretti e nel quale devi fare una maggior pressione sulle emozioni. Scegliendo inoltre, in questo caso, di addolcire e semplificare la vicenda raccontata.
Ho trovato meravigliose le musiche, le esibizioni dell’ensemble, i costumi, le canzoni e i loro interpreti. Ho apprezzato anche le variazioni rispetto al romanzo, funzionali a mantenere l’insieme compiuto nel suo virare da romanzo di cappa e spada a essenzialmente storia d’amore.
L’articolo continua a pag.2