“A Verona con Romeo e Giulietta” di Alessia Gazzola (Passaggi di dogana)                     

Sul comodino della Rambaldi

Alessia Gazzola – Verona – Laureata in Medicina e Chirurgia è specializzata in Medicina Legale. Ha esordito con L’allieva, con protagonista Alice Allevi, a cui hanno fatto seguito altri 8 libri e da cui è stata tratta una serie televisiva di successo. Dal  2019 ha inaugurato un nuovo ciclo incentrato sul personaggio di Costanza Macallé. Vincitrice di molti premi letterari ha pubblicato inoltre: Non è la fine del mondo, Lena e la tempesta e Un tè a Chaverton House.

“Com’è stato osservato da letterati (ben più titolati di me a entrare nell’argomento) quale per esempio Silvano Sabbadini, il plus apportato da Shakespeare a una storiella di per sé piuttosto scialba, scritta al fine di mettere in guardia i giovani dai rischi che si corrono abbandonandosi alla passione, è stato il ribaltamento della prospettiva: Il suo Romeo e Giulietta diventa l’allegoria dell’amore puro in contrapposizione all’ostacolo e alla convenzione sociale.”

Alessia Gazzola, che adora Verona anche se ci vive da soli sette anni, con questo libro risale alle radici della storia che ha fatto innamorare intere generazioni e ne ripercorre i luoghi.

Vivere nel sedicesimo secolo non ha permesso a Shakespeare una biografia dettagliata, interi capitoli della sua vita ancora non si conoscono. Tanto che alcuni sospettano che  dietro di lui si celasse addirittura tale  Michelangelo Florio, un siciliano che dimorò a Londra in quegli anni. Sicuramente Shakespeare  aveva un debole per l’Italia anche se probabilmente non c’era mai stato e per scrivere si basava su storie raccontate da altri. Si sospetta che  non fosse mai uscito dalla Gran Bretagna per le tante inesattezze riscontrabili nelle  sue opere.   Di sicuro  considerava l’Italia florida, intrigante e liberale, il posto ideale per viverci. Nelle sue  opere troviamo almeno 400 riferimenti a Roma, 51 a Venezia, 34 a Napoli, 25 a Milano, 23 a Firenze,  20 a Verona e perfino a Messina, che gli ha conferito la cittadinanza onoraria.  

(la recensione prosegue a p. 2)

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THE WORD FOR WORLD IS FOREST di Ursula Le Guin, AceBooks

Libro apparso in italiano nel 1977 (ma attualmente non in commercio) con il titolo “Il Mondo della Foresta”

Recensione di Sacha Rosel, traduzione delle citazioni di Sacha Rosel

“Tutte le sfumature di colore da ruggine a tramonto, rosso-bruno e verde chiaro, cambiavano incessantemente […]. Nella foresta, nessun sentiero era sgombro, nessuna luce ininterrotta. Dentro acqua e vento, luce diurna e notturna, s’immergevano foglie e rami, tronchi e radici, l’oscuro e l’intricato.”

Ursula Le Guin, The word for world is forest

Nell’introduzione al suo romanzo di fantascienza The word for world is forest, Ursula Le Guin sfida la presunta funzione escapista spesso riservata ai libri di speculative fiction, spiegando come l’unica motivazione di ogni verǝ artista della scrittura sia la ricerca della libertà, indipendentemente dal genere letterario prescelto. Operando in un contesto come quello dei tardi anni ‘60 dilaniati dalla guerra in Vietnam, Le Guin fu testimone della “depredazione di risorse naturali”, dello sfruttamento e degli assassini compiuti ai danni della popolazione vietnamita, per lei chiare espressioni di una cultura tossica maschilista incentrata sulla guerra. In quanto parte attiva della lotta pacifista, Le Guin ritenne eticamente necessario scrivere un libro dove esprimere il proprio orrore verso l’oppressione contro l’Altro e al contempo lanciare un grido salvifico di libertà.

Ambientato nel mondo immaginario di Athshe, pianeta dove gli umani decidono di stabilire una colonia per appropriarsi di beni ormai rari sulla terra come il legname, The word for world is forest esplora il concetto di colonizzazione e insieme di ribellione contro le forze colonizzatrici attraverso tre personaggi principali, espressione di tre modi diversi di intendere il rapporto con la natura e l’interazione con altre specie intelligenti. A rappresentanza dei terrestri, troviamo il capitano Davidson, tipico esemplare di suprematista bianco che vede se stesso come “domatore di mondi” e “Nuova Tahiti” (epiteto razzista che gli umani usano per definire il pianeta Athshe) come “un groviglio interminabile di alberi privo di scopo”. Nella visione di Davidson, l’intervento umano è l’unico in grado di rendere il pianeta ospitante un luogo ‘civilizzato’, attraverso azioni a suo dire necessarie e inevitabili quali il ‘lavoro volontario’ esteso a tutta la popolazione locale, e lo stupro, riservato alle ‘femmine’ della specie indigena.

(la recensione prosegue a p. 2)

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Il Sessismo in editoria

di Susanna Raule

Diversi anni fa, quando avevo già pubblicato qualche fumetto e tre gialli per un grande gruppo editoriale, iniziai a parlare via chat con un autore più anziano e più famoso di me. Eravamo amici su Facebook, ma non ci conoscevamo di persona. Non ricordo come iniziò la conversazione, di certo in modo casuale, come succede in internet. Si trasformò presto in lunghe conversazioni letterarie, dense, profonde, a tratti personali. Mi fece leggere i primi capitoli di un suo romanzo, molto bello. A un certo punto mi disse: “Vuoi sapere che effetto mi fa parlare con te?” Gli risposi okay e lui mi mandò un video in cui si masturbava.

Ognuno ha un suo metro per valutare le molestie.

Quell’episodio fu così ridicolo che, a tutt’oggi, non lo considero una molestia. Se ci penso mi scappa ancora da ridere. Non ero abbastanza giovane da restare scioccata, capite. Ed era un video molto buffo per diversi motivi, di cui senz’altro l’inviante non era consapevole.

Sarà forse fuori luogo, ma mi sono spesso chiesta perché chi ti manda immagini del proprio pene abbia spesso un aggeggio non proprio memorabile. Ci sarà una relazione? Che cosa penseranno?

Nel caso dell’autore in questione, credo fosse convinto che ne sarei stata lusingata. Sulla base di quale esame di realtà, non oso immaginarlo.

In un certo senso si è trattato di un’eccezione. Penso che lo considerasse davvero un omaggio.

Di solito non è così. Di solito, se ricevi immagini sessuali non richieste l’intento è aggressivo: scioccarti, turbarti, disgustarti, sminuirti, insultarti.

Come quasi tutte le donne che conosco, ho ricevuto decine di dickpick. Nessuna era amichevole.

È uno dei motivi per cui non rispondo più ai messaggi privati.

(l’articolo continua a p. 2)

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“Latte Sangue Fuoco” di Dantiel W. Moniz (NN Editore)

(Traduzione di Gioia Guerzoni)

Recensione di Linda Cester

“Non riuscivo a indovinare la sua età, ma era più vecchia, più scura e più bella di me. Disse che era fortunata, che non aveva perso una persona cara, non ancora. Disse che potevi essere un fantasma anche in vita, e che a volte è ancora peggio. Mi sedetti in mezzo a loro, rapita dalle loro storie, e mi resi conto per la prima volta che ognuna di noi era un anello che andava indietro, di madre in figlia e di nuovo madre, in una catena ininterrotta fin dall’origine del tempo, unite da latte e sangue.”

C’è un filo magico che lega i racconti di questa raccolta, una scia comune, spirituale, che entra sottopelle, la traccia di un viaggio che accompagna il lettore in una corrente emotiva che scorre e incanta lasciando integra l’intensità del sentire, cullati da una scrittura poetica che tocca il cuore ed evoca le emozioni più profonde. Undici storie, tutte diverse, che raccontano di legami, famiglia, amore, perdita, sofferenza, di “latte e sangue”, in cui ci si riconosce, con cui si empatizza, storie di protagoniste femminili che si incontrano, si sfiorano, si scontrano, solitudini che si rivelano nell’intimo più profondo, quel lato nascosto, oscuro, a volte fragile, altre crudele, che appartiene inesorabile ad ognuna di noi. Dantiel W. Muniz racconta con grazia, ma anche con crudo realismo, la resistenza, il dolore, la resilienza delle donne, ma anche la ribellione o l’angoscia di ragazzine adolescenti, la disperazione di una madre mancata che non si sente compresa, o ancora il dubbio e la paura che si accompagnano inevitabili alla scoperta di una nuova maternità. Donne svelate nella loro natura più vera, narrate nelle loro pulsioni, nei loro istinti, nelle pieghe più nascoste e recondite delle loro anime, un intreccio di storie in cui la vera e unica protagonista è la Vita, crudele, difficile, spietata, con la quale a volte si è in lotta, che scivola fra le dita, che non sempre finisce bene, ma che resta ed è comunque sempre un dono, che esplode in tutta la sua luce.

(la recensione prosegue a p. 2)

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Mi mandi una tua foto nuda?

Il sessimo nel mondo dell’editoria

Su MicrOmega un articolo di Marilù Oliva

«Mi mandi una tua foto nuda?». Questa è stata la prima frase che ha pronunciato, al telefono, uno scrittore che mi aveva chiesto di contattarlo per un’intervista (da notare che lui voleva essere intervistato, non ero stata io a cercarlo). Forse qualcuno potrebbe replicare che, se era arrivato a dirmi una cosa del genere, probabilmente io gliene avevo dato il permesso, magari concedendogli troppa confidenza. No: era la prima volta che sentivo la sua voce e non c’era mai stato nessun tipo di rapporto nemmeno amicale tra noi, solo un velocissimo scambio di mail. Tra l’altro eravamo due persone con un curriculum molto simile, io ero agli inizi, lui idem, però si dava un sacco d’arie. Così è partita la conversazione, con questo tizio che ha deciso di puntare sui metodi di svilimento che ci rigettano addosso costantemente la pubblicità, la mentalità, i luoghi comuni: attraverso la richiesta di una foto del mio corpo nudo voleva ricordarmi che noi possiamo essere ridimensionate a donne-oggetto. Quella volta mi è bastato metterlo a conoscenza del mio ottavo mese di gravidanza per farlo diventare piccolo piccolo.

Il mio percorso – e quello di altre colleghe con cui mi sono confrontata – è costellato di episodi del genere. Non si tratta certo di molestie pesanti, ma di tanti momenti urticanti che abbiamo dovuto affrontare. Delle volte che siamo state svalutate, ma anche non valutate quanto erano considerati i maschi o addirittura ignorate. Ovviamente, in un momento storico-sociale di rivendicazioni come questo, nessuno si è sognato di esplicitare i suoi intenti. Nessuno ci ha mai detto: valete meno in quanto femmine.

Quando ho esordito col primo romanzo, uno sparuto gruppo di bulletti cresciuti – gravitanti nel mondo editoriale e seccati per il fatto che io “scrivessi recensioni” e forse anche per il mio atteggiamento libero – mi ha fatto pesantemente mobbing con una tattica machista. L’intento era svilire il mio lavoro anche ridicolizzandolo, mettermi al mio posto, accusarmi se credevo nel mio romanzo e lo promuovevo (loro, in particolare, si attaccavano al concetto per cui per le donne non è contemplata l’ambizione, semmai si chiama “arrivismo”). Inoltre attaccavano la mia attività parallela di redattrice su più fronti e la loro morale, tacita ma evidente, era: «Se sei una donna che scrive e recensisce non va bene. Ma se sei un giornalista maschio che pubblica romanzi e magari dirige la pagina culturale del quotidiano della tua città o collabora con essa, allora ti osanno – e tanto puntavano il dito contro di me, quanto si prostravano in maniera imbarazzante verso i luminari maschi del giornalismo e del web».

Tali esperienze fanno parte del mio percorso e mi hanno temprata. Per assurdo, sono grata a questi bulletti adulti perché mi hanno insegnato a difendermi.
Non sono tutti così, per fortuna in questo lavoro si incontrano anche persone in gamba (e infatti ho pochi ma buonissimi amici maschi scrittori). Gente avanti coi tempi, svincolata dai clientelismi, grandi pensatori.

Eppure esiste questo maschilismo silenzioso, quasi invisibile, che si manifesta in una battuta, nell’indifferenza (quante autrici cadono nell’oblio! Molte di più dei colleghi maschietti), in un’ostilità impercettibile ma granitica, spesso portata avanti anche dalle donne stesse, perché, ricordiamolo: questa non è una guerra tra sessi, ma una lotta per la civiltà e il problema investe l’intera società. Quello che mi sento di dire è che per me è stato molto faticoso proprio in quanto donna, soprattutto all’inizio, e non nego che in alcuni momenti di sconforto io abbia contemplato l’ipotesi, poi abbandonata, di pubblicare con uno pseudonimo maschile.

L’articolo prosegue qui a pagina 2 o su MicrOmega

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2° REPORTAGE FOTOGRAFICO LIBROGUERRIERO 15 ANNI

Foto di Alessandro Bettini

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PREMIO LIBROGUERRIERO 2023

15 anni di Libroguerriero

Quest’anno abbiamo premiato la grande scrittrice Dacia Maraini, ecco il reportage fotografico:

il reportage prosegue a p.2

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“Candore immortale” di Luca Nannipieri (Rizzoli)

Recensione di Patrizia Debicke

A Napoleone Bonaparte non bastavano le conquiste belliche. All’apice dei suoi successi militari, Napoleone sognava di fare di Parigi la capitale del mondo, puntando soprattutto sull’arte e ovunque, nel corso delle sue campagne di conquista, dispose che fossero sottratte o meglio razziate le più importanti opere di pittura, scultura, oreficeria, ecc. eccetera. Secondo la consolidata  prassi, comune nei secoli, di tutti i vincitori…


Nel 1796 il generale Napoleone Bonaparte,  occupata  Milano, dette ordine ai suoi uomini  di saccheggiare chiese, abbazie, palazzi storici, depredandoli di  opere d’arte tra le più importanti al mondo.  Partivano così alla volta della Francia  Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Tiziano… Le opere degli  dei…
E al suo commissario Jacques-Pierre Tinet,  che aveva scelto per la competenza nelle Belle Arti  e gli chiedeva a cosa mai gli servissero rispose: «Nel mondo ci sono soltanto due forze: la spada e lo spirito. Col passare del tempo, la spada viene sempre vinta dallo spirito». Verità? Per quanto so, conosco e ho letto di Napoleone Bonaparte, al di là della leggenda che lo circonfonde, direi un’indovinata finzione letteraria.

(la recensione prosegue a p. 2)

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“Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno” di Benjamin Stevenson (Feltrinelli)

Recensione di Nuela Celli

Ernest Cunningham ha pubblicato due manuali di scrittura, li potete trovare su Amazon per soli $1.99: ‘Tutti i segreti di un giallo classico in dieci facili passi’ e ‘Il vostro best-seller anni trenta. Manuale del Mistery’.

Proprio per via della sua pseudo-carriera, Ernie ci racconta la storia che lo vede protagonista insieme alla sua complicata e incasinatissima famiglia, sfruttando sfacciatamente e senza ritegno tutte le strategie e le tecniche narrative di cui lui stesso è fine conoscitore. Con toni a volte giocosi e semiseri, lo scrittore interloquisce con il lettore in continuazione, spiegandogli le regole del giallo, che lui si prefigge di rispettare, scusandosi con l’editor quando si incarta, oppure, preso dall’emozione, quando salta qualche passaggio fondamentale, rassicurandoci però che non sta barando, tanto da citare più volte l’esatto numero di pagina in cui onorerà le aspettative suscitate.

Il racconto parte da un omicidio, esattamente da una notte concitata in cui Ernest viene svegliato di colpo dal fratello Michael che si reca a casa sua con la macchina scassata e un uomo agonizzante al suo interno. Gli ha sparato e poi lo ha investito, come gli racconta scioccandolo, ma non è ancora morto. Nelle ore che seguiranno le loro vite verranno segnate da ogni singola scelta, da ogni gesto ed emozione che si concateneranno in maniera imprevedibile e caotica.

Ma questo è il passato, e adesso ci troviamo nel presente, all’inizio della storia. La zia Katherine, donna molto organizzata e dai trascorsi burrascosi ma che, dopo un incidente che l’ha lasciata claudicante, si è rimessa in riga, ha chiesto alla famiglia dei Cunningham di riunirsi in uno chalet di montagna che si mostra pretenzioso ed esclusivo, lo Sky Lodge.

Reclamizzato come l’hotel più in alta quota di tutta l’Australia, che francamente è un po’ come vantarsi di essere il fantino più alto del mondo, offriva un campo da golf a nove buche, scavato nella parete della roccia, un lago straripante di trote, ideale per la pesca o la canoa, [ … ] un accesso diretto agli impianti di sci e persino un eliporto privato.  

(la recensione prosegue a p. 2)

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I CANTI D’AMORE DI WOOD PLACE di Honorée Fanonne Jeffers

 (Guanda)

Traduzione di The Songs of W.E.B: Du Bois, di Alba Bariffi

Recensione di Piera Carroli

“Un tempo coloro che avanzavano al buio cantavano canzoni – canti di dolore – perché avevano la stanchezza nel cuore. E così prima di ogni pensiero che ho scritto in questo libro ho  posto una frase, un’eco persistente di quei vecchi canti bizzarri in cui l’anima dello schiavo nero parlava agli uomini. Fin da quando ero bambino questi canti bizzarri in cui l’anima dello schiavo nero parlava agli uomini. Fin da quando ero bambino questi canti mi hanno profondamente commosso. Sono emersi dal Sud a me sconosciuti, uno per uno, eppure li ho riconosciuti  subito come appartenenti a me e ai miei”.

Da tanto tempo atteso e dovuto  Honorée Fanonne Jeffers ha scritto il grande romanzo americano Nero, una saga formidabile (Observer), un audace canto d’amore a una famiglia afroamericana Booklist). La vista dall’alto trasformerà il vostro modo di capire l’America (Washington Post).

La saga, suddivisa in Canti che riportano all’inizio citazioni dai libri di Du Bois, sociologo, storico, saggista e poeta statunitense naturalizzato ghanese, sono a loro volta suddivisi in capitoli. L’autrice ci tiene a sottolineare che, al contrario della tesi dottorale, i Canti sono un’opera di invenzione: “Questo non è un libro di storia accademico. È un’opera di narrativa storica, quindi non fornirò dieci pagine di bibliografia di tutti i testi letti nel corso di un decennio. Sarebbe troppo lungo. Comincio invece dall’uomo il cui nome mi benedice (spero) in questa impresa creativa: William Edward Burghardt Du Bois” (pag. 837).

La narrazione non è cronologica ma salta dal presente al passato. Per facilitarne la lettura e i collegamenti tra i numerosi personaggi, all’inizio del tomo è stato inserito l’albero genealogico della famiglia; mentre nella Coda archivistica posta alla fine della saga, Fanonne Jeffers dichiara le sue intenzioni autoriali senza mezzi termini e l’impeto che l’ha spinta a scrivere i Canti:

 “Questo è un romanzo femminista nero, e non me ne scuserò. Diverse opere mi hanno aiutato non solo a tracciare l’evoluzione intellettuale di Ailey come giovane womanist / femminista nera, ma anche le interazioni tra i personaggi”.

(la recensione prosegue a p. 2)

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