I TENDINI DI ZEUS di Laura Pepe (Solferino)

Recensione di Marilù Oliva

«Perché il mito – è innegabile – è meraviglioso. E ci parla di un mondo meraviglioso in cui mortali e immortali vivevano insieme, si parlavano, si toccavano, si univano gli uni con gli altri. In cui la vita era soprattutto fisicità, concretezza. Corpo – appunto – ben più che spirito»

“I tendini di Zeus. Corpo, anima e immortalità nel mito greco” (Solferino) è un saggio di Laura Pepe, docente di Diritto romano e Diritto greco antico all’Università degli studi di Milano ma anche divulgatrice scientifica per il canale televisivo Focus.

Si tratta di un piacevole viaggio in un tempo senza tempo, quello del mito greco. E in particolare, qui viene approfondito il rapporto della cultura greca con il corpo – ma anche con la morte e quindi con l’immortalità.

S la morte in Omero è vista come qualcosa di negativo che ti strappa dai piaceri della vita, chi vive nell’Oltretomba è ridotto a soffio vitale, la “psyche”, un fantasma evanescente che deve essere rinvigorito con offerte. Molto interessante il rimando etimologico-lessicale che ci fa entrare più a fondo nella pregnanza dei significati. E così scopriamo, ad esempio, che la parola “soma” da cui deriva un numero notevole di parole attuali che lo considerano come “il corpo” (psicosomatico, cromosoma, somatizzare, etc), è in realtà la salma, il cadavere. E in Omero non esiste un termine che indichi il fisico vivo come lo consideriamo noi. Il corpo umano e quello divino sono epicentro della narrazione attraverso le loro possibilità e i loro segreti: cosa distingue i Divini, cosa li rende immortali? Cos’ha di speciale il loro sangue incorruttibile?

Un libro snello e ritmato, con riferimenti precisi all’epica, che ci fa toccare la pelle degli dei e degli eroi. Con acribia e chiarezza, la professoressa Pepe ci conduce in quella soglia proibita che è il limite tra la vita e la morte, ripercorrendo, ad esempio, un duello mitico – quello tra Ettore e Achille – che riserba una sorpresa stupefacente. Oltre all’esito, c’è la sostanza degli eroi, queste creature immortali soltanto nell’epica e nei ricordi, ma tanto disposte a sacrificarsi in battaglia, come se morire in guerra fosse il più nobile degli epiloghi:

«Questa morte, per i Greci, è una morte bella, la sola morte bella: perché sottrae il corpo alla sua naturale corruzione, lo strappa al decadimento della vecchiaia e lo immortala in quello che Omero chiama “hébes ànthos”, il fiore della giovinezza».

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