#grandangolo di Marco Valenti
Antonia Spaliviero (1954-2015) ha dedicato la propria vita alla scrittura per il teatro, aiutata dalla vicinanza del marito, Gabriele Vacis, autore teatrale e drammaturgo. Dopo la sua scomparsa è stato lui stesso, insieme alla figlia, a ricercare quei diari tanto cari alla moglie, convinto di trovarvi dentro l’anima della donna con cui aveva scelto di affrontare la vita. Tra i tanti l’occhio è caduto su quelli relativi agli anni della gioventù, da cui è stato tratto questo romanzo postumo edito da Sellerio, il primo stando a quanto è dato sapere fino a questo momento. È lo stesso marito infatti a dichiarare come „le storie e le persone continuano ad esistere finchè qualcuno le ascolta e le legge.”
La Spaliviero ha tenuto il diario della sua vita per tutto il tempo che le è stato concesso di restare in vita. Dapprima su carta e poi a seguire con gli strumenti che la tecnologia ci ha fornito strada facendo. Di conseguenza “La compagna Natalia” non può non risentire dell’abitudine dell’autrice a raccontare ogni istante della propria quotidianità.
“Nel 1968, non avevo ancora quattordici anni, ero posseduta da principi esclusivi, accecanti, non potevano esisterne altri, e se esistevano erano lontani. Almeno quanto era lontana Torino da Settimo Torinese, la cintura in cui vivevo. Torino era la metropoli con i licei, l’università, i musei, i teatri e i grandi giornali… Con gli eskimo e le sciarpe rosse… Con il furore del mutamento. Io ero impegnata a modellare me stessa, con un formalismo così serioso che il più delle volte mi bastava enunciarli, quei principi, per vederli volare alti. Così, la notte dell’ultimo dell’anno del 1968, col quaderno appoggiato al davanzale della finestra per prendere l’ultimo calore del termosifone che si spegneva alle dieci, e sfruttando la luce che entrava dal lampione sulla strada, scrivevo: e qui comincia La compagna Natalia”.
Siamo a cavallo tra i sessanta e i settanta, a Settimo Torinese, periferia del capoluogo piemontese all’ombra delle grandi fabbriche industriali, in un comprensorio sociale in cui gravitano gli emigranti che dal Sud hanno dovuto spostarsi in cerca di un lavoro. Non ci sono grandi prospettive per i giovani in quel contesto, soprattutto per le ragazze e la Scuola di Avviamento Professionalle sembra essere l’unica strada per provare a dare un senso ad un’esistenza che altrimenti rischia di deragliare troppo presto. Non saranno infatti pochi quelli che negli anni immediatamente seguenti finiranno per essere travolti da scelte tanto avventate quanto sbagliate.
(la recensione prosegue a p.2)