Recensione di Raffaella Tamba
Con questo suo romanzo d’esordio, l’autrice (nella foto, sotto) – nota a molti come la Chiara del duo musicale Paola&Chiara degli anni ’90 – vuole offrire una spinta resiliente alle giovani adolescenti nelle crisi esistenziali che spesso le travolgono: dalla capacità di elaborare un trauma o un grave disagio, al necessario se pur doloroso percorso di introversione a tutela della propria identità, fino alla forza di accettare il cambiamento, prima quello esteriore, imposto, condizionato, poi quello interiore, proprio, autentico. Un romanzo che porta con coraggio la visione di una grande palude, nella quale tante giovani affondano, quella dell’anoressia.
In un inverno freddo e nevoso in provincia di Como, la protagonista narrante in prima persona alterna il racconto del presente con ricordi dell’infanzia, in un contrasto chiaroscuro di felicità passata perduta e soffocante frustrazione attuale.
Come una Cenerentola moderna, Emilia vive con una prozia arcigna e insensibile, che aveva sposato il nonno con una figlia da un precedente matrimonio, tipica ragazza futile e vanesia e pettegola. Un cliché, certamente, ma un cliché del tutto verosimile perchè quello della frivola ‘sorellastra’ è sempre stato e sempre sarà un tipo di atteggiamento ricorrente (non necessariamente definitivo) in molte adolescenti, forti di un’unione di gruppo dalla quale si sentono autorizzate a plagiare o disprezzare chi non è come loro. E l’autrice, con questo romanzo, vuole sostenere le ragazze vittime di questo disprezzo, e condurle fuori da quel tunnel nel quale, soprattutto se a questa condizione di disagio sociale, si aggiunge, come può capitare, un altro trauma, di qualsiasi tipo, sprofondano sempre di più, deviando spesso in strade oscure come quella della droga, dell’autolesionismo, della trasgressione o dell’anoressia.
Dopo la perdita improvvisa e contemporanea di entrambi i genitori in un incidente stradale a undici anni, Emilia si è chiusa in un mutismo quasi totale, ha ridotto progressivamente l’alimentazione, ha cambiato il proprio nome in Emily, come la poetessa inglese che amava per la sensazione di leggerezza ed evasione che le sue liriche le ispiravano; una in particolare, sentiva che la rappresentava perfettamente:
Mi pesarono, granello per granello,
bilanciarono fibra con fibra.
Poi mi porsero il valore del mio essere:
un solo grammo di cielo.
Nella scelta del silenzio e della riduzione di peso Emily cerca di alleggerire il carico della sua sofferenza: “Perché mai dovrei riprendere peso, uscire di qui, sembrare una persona normale in mezzo ad altre persone normali? Io semplicemente non lo sono. Sono io e voglio essere così come sono”. Il controllo del suo corpo, il volerlo a tutti i costi mantenere sempre uguale, senza assumere un solo grammo in più (come per restare in quel “grammo di cielo” della Dickinson) era un modo per non cambiare, per non crescere, per non acquistare una consistenza che le avrebbe fatto sentire ancora di più le fitte lancinanti della solitudine e della denigrazione subita.
Al pronto soccorso dove è stata portata dopo uno svenimento da astenia si rendono presto conto delle sue condizioni e la indirizzano ad un istituto di cura sulle colline di Como. Là, Emily ritrova almeno in parte quell’ambiente caldo, accogliente e comprensivo, che aveva perduto con la morte dei genitori e che l’unica parente rimasta non le aveva saputo o voluto ridare. Due compagni, Pietro e Bella, opposti per natura – tanto sicuro di sé, forte e autoironico lui, quanto fragile, indifesa e insicura lei – le dimostrano un’empatia che Emily non aveva mai pensato di poter trovare nei coetanei ed insieme costruiscono un “fortino di amicizia” nel quale si chiudono, protetti e sicuri, riuscendo a trovare fra loro le risorse per recuperare fiducia in sé e mettersi in condizione di poter affrontare il mondo esterno.
Fondamentale in questo passaggio è l’esperienza teatrale che l’istituto offre loro. Il teatro, per Emily, era sempre stata una passione, fin da quando, bambina, aveva salvato dell’intera biblioteca della madre che la zia aveva venduto in blocco, un elegante volume di Shakespeare letto e riletto negli anni successivi. Pur di coltivare quella passione aveva provato ad aderire al progetto teatrale della scuola, che si era però rivelato un disastro. Là non c’era alcuna condizione che le permettesse di estrinsecare qualcosa di sé: “Ho sempre pensato che gli altri non possano amare ciò che amo io. Gli altri, o almeno quegli altri che mi è capitato di conoscere, sono sempre stati così lontani da quello che era il mio mondo”.
Nell’istituto, invece, le cose sono diverse: emblematico capovolgimento di situazione, l’insegnante dimostra di amare proprio ciò che Emily ama di più, proponendo per la rappresentazione finale, la commedia di Shakespeare Misura per misura.
Così, giorno dopo giorno, Emily si apre e, quel che più conta, ne è cosciente: “Che abbia tirato giù una zip che chiudeva il mio bozzolo, permettendo finalmente al mondo di pervadermi, di fare la conoscenza con la parte più profonda di me?”.
È però necessario un passo preciso perché possa liberarsi dell’oppressione psicologica che la tiene imprigionata. Deve affrontare i fantasmi non del passato – che sono i suoi genitori e sono fantasmi buoni, aleggianti attorno a lei in un alito di affetto e protezione – ma i fantasmi del presente, i fantasmi del rifiuto e dell’odio. Torna a casa per una notte, ma è una notte terribile che trasforma il ritorno in una fuga.
Volutamente l’autrice ha inserito nel suo libro riconoscibili riferimenti alle fiabe classiche, da Cenerentola nell’umiliante condizioni in cui è tenuta Emily in casa propria, al tradizionale bosco di Pollicino o Hansel & Gretel, in cui di notte si smarrisce la strada, metafora delle paure di Emily e Bella. Lo stesso nome Bella si ricollega a quello della fiaba della Bestia riecheggiata nell’immagine del grande salone in cui il gruppo farà le prove di teatro (ma credo che Bella richiami anche il titolo di una delle prime canzoni di Paola&Chiara, dedicata proprio ad una ragazza preda dell’anoressia).