RubriCate: Trilogia di una Repubblica di Valerio Varesi (Frassinelli)

di Caterina Falconi

Parte prima

La sentenza”

Leggendo la “Trilogia di una Repubblica” (Frassinelli)  di Valerio Varesi (nella foto sotto) si ha l’impressione che i tre romanzi che la costituiscono, seppur attraversati da un evidente fil rouge (i cui filamenti sono l’afflato politico; la spinta a investigare, che si tratti di un delitto o della morte della prima Repubblica; il talento affabulatorio e immaginifico di uno scrittore bifronte, storico e noirista), siano i tre distinti movimenti di un concerto.

Ciascuno caratterizzato da un inconfondibile timbro narrativo, e da una lingua infallibile ma mimetica ed evocativa rispetto alle suggestioni da cui prendono le mosse le trame.

Ciascuno avviluppato attorno a dei rovelli di cui è coscienziosamente dipanato il senso.

Per questo, da recensora puntigliosa, peraltro abruzzese e quindi di altra humus rispetto all’emiliana, milieu dei romanzi dello scrittore parmense, ho tentennato tra il recensire il poderoso volume o le tre distinte e concatenate parti.

Ne ho parlato con la mia caporedattrice Marilù Oliva e abbiamo deciso per una “tripartizione”, riservandoci di apporre delle considerazioni di carattere generale in esergo.

Ogni notte ritornavano. Sentiva il loro rombo cupo in sottofondo, una minacciosa marcia di guerra che si faceva sempre più forte. A poco a poco tutto il carcere ne vibrava e anche gli assassini si mettevano a pregare in silenzio, redenti dalla paura.”

È l’incipit del romanzo “La sentenza”. Valerio Varesi irrompe nella pagina puntando un faro sulla tenebra che, una fatidica notte del maggio del 1944, ammanta Parma e opprime il carcere di San Francesco. La tenebra stavolta, metafora di una cecità foriera di morte molto più potente della nebbia cara allo scrittore. La città è scossa dall’esplosione delle bombe gettate a casaccio dagli aerei, che ne sbriciolano la storia. Impotente palpita di rosari nei rifugi attorno alla prigione animata dalle preghiere degli assassini estemporaneamente redenti dalla paura. La guerra volge al termine, ma proprio per questo la sua violenza è scriteriata e incontrollabile, e in un certo senso va a sovrapporsi e a coincidere con il destino nella sua estrema caratteristica: l’arbitrarietà con cui dispensa condanna o salvezza.

Dopotutto parossistico è il momento storico, estreme e nette le ideologie che contrappongono gli schieramenti militari e partigiani.

Tra i “litiganti”, i civili costretti nei rifugi sotterranei. La povera gente, depredata dai fascisti e dai tedeschi, oltre che da veri e propri ladri, e in un certo senso gravata anche del sostentamento dei partigiani, più o meno estorto. I contadini della Valle dell’Enza, dagli occhi vetrificati dall’orrore dei rastrellamenti, aggiogati ai ritmi di una terra martoriata che partorisce con difficoltà i suoi frutti, diffidenti e distaccati rispetto alle grandi questioni contese.

Un capitolo oscuro della storia italiana, in bilico sui calanchi del destino, brutale e claustrofobico, di cui la prigione sventrata è la metafora più calzante.

Ed è dal carcere di San Francesco di Parma e dal carcere milanese di San Vittore che i tre protagonisti maschili saranno rigettati nel mondo. Bengasi, assassino e delinquente con trascorsi nella Legione straniera. Ilio, prigioniero politico, giovane comunista istruito e affettivo, animato da un candido idealismo. E Jim, delinquente comune che l’incapacità di ricusare i bisogni estemporanei, la facilità ai compromessi e il ricorso agli espedienti hanno tratto lentamente fuori da sé, in un progressivo sbilanciamento etico e identitario.

Per tutti e tre, la liberazione giunge in un certo senso inaspettata e postuma a esistenze segnate da una pregressa sentenza e tumulate nella pena detentiva.

Sono le bombe che squarciano il carcere di San Francesco a liberare Bengasi e Ilio. Mentre a Jim viene offerta una sordida chance: sarà scarcerato a patto che si infiltri tra i partigiani come informatore della milizia, affiancato dalla prostituta Milly che si fingerà sua moglie.

È significativo che Jim e Bengasi si immettano nella seconda vita con un nome diverso da quello di battesimo. Quasi etichettati da un’identità precaria che piano piano e inaspettatamente li compenetrerà, mutandoli, fino alle estreme conseguenze. Tra i due un abisso sul fronte del carattere. Bengasi è anarchico, impulsivo, carismatico, veemente, visceralmente ostile a ogni forma di autorità. Jim è schivo, calcolatore, autarchico, in altre parole un deviante, tuttavia capace di rimorso e autocritica. I percorsi di entrambi sono stati frastagliati ed estremi, mentre il giovane Ilio, ancorato saldamente alla propria storia anche familiare e alla propria terra, ha proceduto in un rettilineo di consapevolezza, maturando un progettuale senso di appartenenza alla collettività grazie agli studi e alla politica vissuta come missione. Dei tre è il solo che si incammini senza esitazione, a rischio di perire nel tragitto, verso il comando partigiano a cui è stato assegnato dal Partito Comunista come commissario politico.

Bengasi si ritrova libero, naufrago tra i naufraghi, “nel buio di una notte violentata dalle bombe”, in uno scenario di vita e distruzione che vede giustapposti cadaveri immoti e puerpere, vibrante delle urla dei feriti e del silenzioso sollievo dei sopravvissuti. Con altri carcerati si allontana dalle macerie della prigione e istintivamente si dirige verso gli spazi aperti della campagna, ancora ignaro della piega che prenderà quel supplemento omaggio di destino.

Un lettore sensibile alla seduzione della letteratura, a questo punto sarà distratto dalle considerazioni sottese alla vicenda del mercenario e dei suoi complici nella buona sorte. La descrizione della notte violata dai bombardieri è così potente da irretire in una compartecipazione anche sensoriale. Pare di udire il rombo degli aerei, di inalare la polvere e il fumo che si sollevano dalle macerie. È l’effetto di una prosa duttile, potente, irresistibile, che centra con sicurezza l’obiettivo di ricreare esattamente, come in un ologramma o in una rappresentazione illusoria tridimensionale e realistica, le vicende contestualizzate e le emozioni dei testimoni obbligati a interagire con l’immanenza narrata.

Tuttavia, la curiosità prevale sull’incanto quando la macchina da presa narrativa inquadra i due fuggiaschi e il traditore che, tagliando per le campagne o seguendo gli argini dei corsi d’acqua, si dirigono, sospinti da una sorta di ineluttabilità a cui solo Ilio si consegna consapevolmente, dai partigiani arroccati sull’Appennino nella Valle dell’Enza.

Bengasi, riluttante all’autorità incarnata dal fascismo e dalle truppe regolari, intravede nell’arruolamento nelle bande partigiane, eversive e poco strutturate, la possibilità di rimettersi in gioco con un ampio margine d’azione.

Jim accetta di buon grado la libertà condizionata e bifida che il ruolo di traditore consente, impreparato però all’impatto con un’umanità autentica e coraggiosa, profondamente diversa dalla delinquenziale con cui ha convissuto fino a quel momento, che lo sconcerterà insinuandogli rimorsi e disprezzo per se stesso.

L’entusiasmo di entrambi, mentre ascendono ai monti con il cuore ingorgato da un illusorio senso di onnipotenza, presto andrà a sfrigolare con la realtà partigiana condizionata da mille ristrettezze, dalla scarsità delle armi, inficiata da antichi rancori campanilistici, eppure eroica nella netta adesione a un ideale anche politico che accomuna, accorpa, traina, identifica e restituisce un senso intatto al sacrificio volontario di tante vite.

V’è una sorta di commovente candore, nei partigiani di Valerio Varesi, ritagliati dalle pagine di storia e rimessi in scena con l’intento di controbattere, a detta dell’autore, a un negazionismo disonesto. Ragazzi per lo più, devoti a una causa collettiva, spesso ancora ignari delle gioie della vita incipiente e persino del sesso, che tuttavia, nell’ostinazione a resistere contro la dittatura fascista e nell’opporsi allo scioglimento della brigata ordinato dagli alleati inglesi, compiono una scelta incondizionata e altamente etica.

Lo stesso Ilio, che ha gli strumenti intellettuali per cogliere le contraddizioni e la difficile attuabilità dell’ideologia che rappresenta e di cui è garante, sceglierà di restare aggiogato a una fedeltà politica che lo catapulterà nell’età adulta, con una dura iniziazione, nel momento in cui accetterà di macchiarsi, riluttante, della condanna di due commilitoni.

Con una prosa mimetica che traduce l’immaginario contadino e montanaro dell’epoca, utilizzando similitudini attinte da una quotidianità scarna e poetica fatta di animali, eventi climatici, ritmi vitali a loro modo solenni, con cui la natura magistralmente descritta interagisce da coprotagonista, Valerio Varesi narra le azioni guerresche dei partigiani che si muovono su sentieri fedelmente ricostruiti nelle pagine con una perizia da mosaicista. Un dettaglio, quest’ultimo, che la dice lunga sull’onestà del grande romanziere parmense, sullo strenuo e capillare lavoro di documentazione che precede la stesura di ogni suo romanzo e sulla passione narrativa che non cessa mai di palpitare nelle sue pagine. Talvolta la prosa si invola così alta che il lettore viene colto da una sorta di apnea emozionale, regredendo allo stupore infantile davanti alla fiaba, a una meraviglia indotta dall’eco di storie in cui risonano intatte le suggestioni trasmesse dai nostri nonni nei loro resoconti sulla guerra.

Ci si illude allora, precipitando nel cuore dello scrittore, di ascoltare con lui bimbo le storie leggendarie dei partigiani che i familiari devono avergli raccontato davanti a un focolare, tanti anni fa. Così come altre volte si è colti dal sospetto che Ilio, Jim e Bengasi rappresentino gli aspetti complementari e contraddittori di un certo maschile.

Dopotutto, che la scrittura di Varesi abbia una forte connotazione virile è indubbio e questo romanzo è, oltre che un romanzo storico imperniato su una problematicità, anche un romanzo al maschile.

Non maschilista! ma condizionato da uno sguardo, da una prospettiva da uomini degli anni Quaranta, che inquadra le grandi questioni sollevate e persino il femminile inteso come tangente.

Le donne sono infatti presenze intermittenti e ripropongono la tripartizione del maschile incarnata dai tre protagonisti, ciascuno correlato a una precisa figura femminile.

Ilio è salvato e iniziato sessualmente da una donna matura, dal grande corpo generoso, che incarna in un certo senso l’abnegazione materna.

Jim è legato a Milly in una specie di matrimonio fittizio che tuttavia non gli impedisce di subire una sorta di ricasco amoroso. Milly però è un po’ il corrispettivo del compagno, con cui condivide una visione pragmatica, disincantata e utilitaristica dello stare al mondo che la spinge a prostituirsi senza troppe remore. Un’unione ben assortita ma allo stesso tempo intermittente, la loro, caratterizzata dalle sparizioni della donna e da uno sporadico e superficiale (almeno in apparenza) ritrovarsi.

Più simile all’amore è l’intesa tra Bengasi e la staffetta Evelina, connotata dall’intenso desiderio di entrambi e da un tenero rispetto da parte del partigiano.

Ma forse era troppo pressante il bisogno di dare spazio alla difficoltà dei protagonisti di gestire la libertà insperata in un frangente storico e individuale soverchiato dalla guerra, perché si potesse anche indugiare sull’amore sentimentale.

In gioco, nel romanzo, sono piuttosto binomi antitetici come appunto la libertà e la coercizione, la colpa e la redenzione, l’individualismo o la devianza e l’appartenenza, la commistione di bene e di male in ogni impresa umana, il fragile confine tra liceità e abuso quando l’ideologia, collidendo con le scelte individuali, si investe del diritto di vita e di morte sui militanti.

Grandi, drammatici quesiti che Valerio Varesi gira ai lettori narrativamente, come è giusto che sia, raccontando, mettendo in scena, e non concionando alla maniera di tanti autori politici, che inanellano slogan senza avere l’umiltà di frugare alla ricerca di una spiegazione. Attenendosi alle fonti documentarie con scrupolo e onestà intellettuale.

Meritevole di riflessioni è la dolente e straordinaria figura di Jim, torturato dai rimorsi per aver tradito i compagni partigiani a cui si era affezionato. Incapace di assunzione di responsabilità e di incamminarsi in un percorso di redenzione perché privo dei mezzi che a un certo punto, imprevedibilmente, gli saranno forniti da un oggetto alieno: un libro di Conrad.

Ovviamente il rimando al “Lord Jim” è una sottolineatura della funzione etica e civile della letteratura, oltre che formidabile strumento di introspezione e di indagine storica, ma nel caso specifico è interessante cogliere la conclusione a cui pare giungere Jim, dopo la lettura, nel momento in cui intravede una via d’uscita dai sensi di colpa, ovvero che la libertà vissuta individualisticamente è, nel migliore dei casi, inefficace.

Qualche parola ancora sulla prosa di Valerio Varesi, insuperabile nella descrizione delle montagne, dei boschi e dei corsi d’acqua della sua terra.

Un romanzo, “La sentenza”, che ha certamente cavato lacrime ai lettori più sensibili e instillato la curiosità di sapere cosa sia accaduto al nostro paese dopo le lotte partigiane, nel secondo dopoguerra.

Caterina Falconi

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2 risposte a RubriCate: Trilogia di una Repubblica di Valerio Varesi (Frassinelli)

  1. patrizia debicke ha detto:

    Super

  2. Caterina Falconi ha detto:

    Ciao Patrizia ❤

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