“Libro dei fulmini” di Matteo Trevisani (Atlantide)

di Elisa Della Scala

Libri in viaggio – Roma, Italia: “Libro dei fulmini”

La prima volta che la vidi ebbi l’impressione di conoscerla da sempre. Pensavo davvero che una città fosse la forma umana più elevata, lo spazio dove lo spirito dell’uomo si è espresso al suo meglio. E nei miei pensieri la città non era diversa dalla natura, ma qualcosa che procedeva da essa. Le colonne dei templi erano gli alberi dei boschi sacri, le sue piazze erano laghi, le sue vie stretti sentieri impervi di montagne incantate. Per questo, la sola città degna di tale nome non poteva che essere Roma.

A Roma ci sono nata, eppure non sono mai riuscita a vederla con gli stessi bellissimi occhi di queste parole. Forse perché non esiste la giusta distanza dai luoghi che ci appartengono e a cui noi apparteniamo: neanche a migliaia di chilometri si riesce a metterli a fuoco, a considerarli con l’obiettività della lontananza emotiva. O forse perché Roma è bella e difficile, e spesso finisce per farsi vivere d’un amore a imprescindibile sottofondo di risentimento. Invece, grazie al “Libro dei fulmini” (Atlantide), scritto da Matteo Trevisani, mi sono sorpresa ad avere un paio di occhi nuovi per una città che credevo di conoscere ma che mi rendo conto di capire poco.

Roma devi guardarla da dentro se vuoi capirci qualcosa. Qui non ti accorgi dell’anima che abita la città, dello spazio che resiste al disordine. […] A Roma tutto quello che c’è di vero sta sottoterra. È una cosa di cui non ti accorgi subito, abituato come sei a volgere gli occhi al cielo, ai fregi barocchi dei palazzi e delle chiese, agli affreschi. Ma quando cominci a scendere nelle cavità ipogee, allora ti viene in mente che devono esserci molte più cose dimenticate di quante in realtà se ne conoscano. E rendersene conto è facile, perfino evidente. Basta guardare, basta fermarsi, ogni volta che ci sembra vi sia qualcosa di strano, rimandare un appuntamento e prendersi un’ora per fare il giro di una via sconosciuta, per tracciare il perimetro di un palazzo, avvicinarsi ai marciapiedi e tendere l’orecchio al suono della terra, a quello che accade mentre tutti guardano altrove.

Queste le sensazioni e le parole del protagonista del romanzo – omonimo e forse alter ego dell’autore – mentre si aggira nella città eterna tessendo per il lettore una trama pervasa di tensione elettrica che a tratti ha quasi il sapore del noir oltre che dello storico, ma anche del romanzo di formazione e dell’erotico. Questo libro è una commistione ben riuscita di generi alternati con disinvoltura e, soprattutto, una lettura che trasmette il puro e semplice piacere di farsi portare dal protagonista in un presente onirico in cui il confine tra la realtà e il sogno sfuma di riga in riga fino a perdere quasi di significato.

[…] mi chiedevo se davvero ci stessi credendo, ma capii istantaneamente e per sempre il senso ultimo dei sogni che non sembrano tali: arrivare fino alla fine. Sentivo qualcosa che mi attirava verso la conclusione di quella storia, come una stella che attira a sé i suoi pianeti, o un vento di risucchio che sospinge una barca che naviga di bolina. Procedevo verso una soluzione, ma mi sembrava di scomparire un po’ ogni secondo. 

Matteo Trevisani sembra voler gettare il lettore nella stessa sensazione di estraniamento del suo protagonista, e ci riesce perfettamente. Si entra talmente bene in empatia con lo scritto tanto che si finisce per perdersi tra i capoversi. In modo quasi ipnotico, perché a un certo punto della lettura ci si rende conto che dipanare la trama forse non è più la prima urgenza, piuttosto lo è il semplice godersi lo scorrere delle pagine. Il “Libro dei fulmini” si trasforma così in un labirinto di parole dove perdere il filo non è affatto un dispiacere, talmente tanta è la ricchezza formale e documentale con cui è scritto.

Sai qual è il segreto di tutti i labirinti? Le persone pensano che siano fatti per uscirne, giochetti per trovare vie d’uscita e passatempi, camere e cunicoli, vicoli ciechi da seguire piano con le dita fino a un’apertura che ti dice che hai vinto. Non è così. Il segreto del labirinto sta nel non voler mai venirne fuori, nell’accettare quell’eternità senza via di fuga, anticipare la meraviglia del mondo all’interno di sé. È questo che serve per trovare la vera via.

Ho chiesto ad una persona il cui parere reputo autorevole cosa l’avesse attratta e affascinata del “Libro dei fulmini” e mi ha risposto con una sola parola: “atmosfere”.

Adesso che ho voltato l’ultima pagina ho capito ciò che intendeva dirmi, e concordo pienamente. Matteo Trevisani offre al lettore un interessantissimo collegamento del culto di Mitra con alcune filosofie, religioni orientali. Non solo per l’esplicito parallelismo del Vajra con il fulmine (il Vajra, che più volte viene chiamato in causa nella trama, è un oggetto simbolico che può rappresentare il fulmine nell’Induismo e nel Buddhismo tibetano) ma anche nel riuscito riferimento al Tantra e all’uso delle passioni come mezzo per giungere alla consapevolezza. Il Tantra è una filosofia che considera il rapporto sessuale come estatica trasformazione dell’uomo quando, sacro e ritualizzato, consente la crescita spirituale dell’essere. Nel “Libro dei fulmini” il passaggio verso uno stato di coscienza superiore del protagonista avviene anche attraverso l’atto sessuale e, in alcune scene descritte in modo elegantemente erotico, la coppia praticando l’unione sessuale tantrica si dedica ad un vero e proprio rito dove le energie fisiche dell’uomo unite a quelle della donna permettono il raggiungimento di uno stato di trasformazione psichica per entrambi.

Infine, nel testo è interessante trovare anche un riferimento esplicito allo Zen quando Matteo Trevisani affronta il tema del dualismo. In Occidente viviamo di dualismo: sogno e realtà, ragione e sentimento, sé ed altro. Questa visione delle cose porta inevitabilmente ad una lacerazione interiore, ad un senso di solitudine, indecisione, incompiutezza, ad una lotta continua. Invece, secondo le filosofie orientali questo modo di indagare la realtà non ha senso di esistere e superare ogni dualismo è il passaggio necessario verso la perdita del sé per abbracciare la totalità del tutto. Lo Zen insiste in modo particolare sull’importanza del superamento di ogni dualismo, poiché nel momento in cui davvero riusciremo a realizzare questo dentro di noi, all’improvviso arriverà l’illuminazione.

Camminavo perduto per Roma come camminavo all’interno della mia vita, alla ricerca di qualcosa, di una soluzione che mi spiegasse il mio rapporto con i fulmini e con quello che significavano. […] E nella luce dell’alba che splendeva su Roma tornai verso San Giovanni a passi pesanti, chiedendomi quale realtà stesse sognando l’altra, e in quale delle due io stessi davvero vivendo.

Ma infine, come per magia, l’uscita del labirinto arriva. L’illuminazione tanto attesa, il fulmine che segna per sempre una strada diversa fino a scriverla addosso con una cicatrice a rete, quasi fosse una nuova mappa per interpretare l’esistenza nell’affascinante incontro tra i molteplici mondi e piani della realtà in cui si sviluppa il suo corso.

«È storia antica», dissi al prete, «i romani facevano il funerale ai fulmini che cadevano dal cielo». L’uomo mi guardò perplesso. Rimase pensoso per un po’ e poi, tornando a ssare il vuoto tra le lastre che si interrompevano, disse: «Be’, in un certo senso continuiamo a farlo anche noi».

Lo guardai e gli sorrisi. Aveva ragione. Continuiamo a fare funerali, a dire preghiere di cui nemmeno conosciamo il significato per sotterrare tutto quello che viene dal cielo, tutto quello che non riusciamo a capire. 

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