di Claudio Guerra
A volte la convinzione che una storia, o la Storia, abbia dei protagonisti è solo un’illusione. Il modo migliore per dimostrare la fondatezza di questa affermazione è un romanzo dove è l’atmosfera a far emergere quello che accade ai personaggi. Figure che, pur dalla penombra nella quale si muovono, a libro chiuso, permangono nella memoria.
In questa strada si muove Claudio Coletta in questo che è il terzo romanzo pubblicato da Sellerio in quella che si sviluppa come una trilogia anomala, che crea un continuum dove ci si sfiora come nell’atrio di una stazione e ogni libro racconta quello che accade a un protagonista che non lo era in quelli precedenti.
In questa ottica neanche il manoscritto del titolo è il vero perno della vicenda. Grazie al cielo. Esiste, seppur solo ai fini di questa narrazione. Ce ne viene raccontata la genesi in un delizioso capitolo di flashback posto all’inizio e ambientato a Pomposa pochi mesi dopo la morte del Poeta. Ce ne viene negata l’esistenza nelle note finali. Ma fintanto che la sua ombra si sfila fra l’una e l’altra delle pagine rimane come un rumore di fondo del quale non sappiamo né l’origine né il senso. Quando però quest’ultimo ci viene rivelato, senza quei deliri escatologici ai quali l’abuso dei “manoscritti” degli ultimi anni ci hanno abituato, ecco sistemarsi l’ultimo tassello della perfezione di un giallo imperfetto.
Il vero protagonista è il Caso e il suo addensarsi e dissiparsi in una apparente causalità. Nario Domenicucci è infatti un ispettore dell’Europol, a Parigi per la risoluzione di un “caso”, che “casualmente” viene coinvolto nelle indagini sul delitto di una nobildonna avvenuto durante il furto di tre quadri della sua collezione. Tre dipinti di dimensioni simili ma di diversissimo valore. Pare infatti che uno dei tre sia addirittura un Giorgione firmato. O forse no.
Lo sguardo dell’ispettore vaga in una Parigi simenoniana fra particolari secondari, scrupoli di coscienza e ricerca della propria personale madeleine. Il tutto in un continuo gioco alla citazione, all’evocazione, più o meno occulta, di tante altre storie, scandito anche dai rimandi nei titoli dei vari capitoli.
Non è però indispensabile risolvere tutti i rebus che si nascondono dietro una storia apparentemente semplice. Il fine della storia, di questa in particolare, si rivela non nell’essere corsi dietro a una soluzione o a una risposta, avendola più o meno efficacemente trovata, bensì nel sedersi su una panchina a guardar passare i treni. Andando cioè oltre il piacere e il dolore derivante dalle proprie scelte, accettandole invece dopo averle fatte.
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Recensione magnifica, fa piacere accorgersi che quando si semina c’è chi sa cosa raccogliere. Grazie Claudio, alla prossima
Grazie a te. È stato un piacere leggerti.