Lucia Tosi, insegnante di italiano e latino, è nata a Venezia, dove si è laureata in lettere moderne a Ca’ Foscari, dopo aver studiato prevalentemente in scuole private religiose in diverse città italiane. Non è di quelli che dicono di sé di aver sempre scritto: si è dedicata anima e corpo alla professione di insegnante e alla famiglia, a qualche sport, al tango argentino che pratica ancora. La poesia e la scrittura in genere sono arrivate molto tardi, più o meno nel 2006, anche grazie allo stimolo rappresentato dalla frequentazione di blog letterari che l’hanno spinta a scrivere. Non ha pubblicato niente a stampa, ma molte sue poesie sono state accolte sparsamente o per intere raccolte in vari blog letterari, quali La poesia e lo spirito, La dimora del tempo sospeso, Viadellebelledonne, Poetarum silva, Il giardino dei poeti, Slow words. Collabora con L’estroverso e Carteggi letterari.
Tra tante cose che si dicono della poesia, sul traballante inutile ufficio che essa riveste almeno dall’ Ottocento in poi (ma scontento del suo ruolo era già Ariosto), ho fatto sempre mie tutte le opinioni che la vogliono invece essenziale, per quanto poco letta, o soprattutto perché poco letta, nel mondo contemporaneo: con l’avvertimento che la poesia (sorta di cugina di quarto grado e per giunta poverissima) è per me poesia quando ci dice con forza cose che sappiamo, ma a cui non prestiamo sufficiente attenzione, presi come siamo dal furore della corsa, del consumo, del lavoro, del guadagno, poveri di passione, tristi nelle passioni. E’ la grande lezione, nient’affatto leziosa, di Pascoli. E’ ciò che dice Maurizio Cucchi, secondo cui un poeta deve “parlare solo di ciò che lo attraversa completamente, che fa parte totalmente della sua esperienza”. Se lo si chiede a me dirò che rifuggo dalle complicazioni, da tutto il Novecento poetico inutilmente complicato che ha finito per allontanare i lettori dalla poesia, avvicinandole, al contrario, migliaia di poeti paroliberisti e bellettristi.
E’ perché credo nel bisogno di dar voce alla concretezza – che non è mai veramente concreta: la poesia, la letteratura in genere non è una lista della spesa, anche se troppe cose che si pubblicano ce lo fanno pensare – che ho scelto il breve racconto e le poesie che seguono, tenuti insieme dal tema della maternità e della figliolanza, catena ininterrotta di relazioni che ci fondano e, talora, affondano: specie perché in questi giorni molte nubi si addensano sull’argomento e, a essere madre e figlia, che è già tanto complicato nella sua estrema semplicità, mi sento all’improvviso arcaica.
Di viti e di rose
D’altra parte l’età è grossa. Che t’aspettavi? Che continuasse così, all’infinito, che passasse dagli ottanta ai novanta senza cedimenti, e poi oltre? Novantatre e con la testa quasi del tutto a posto. A posto? Ma se l’ultima volta mi ha scambiata per una mia vecchia cugina morta già da dieci anni? Ma sono dettagli, si è ripresa subito. Ha fatto anche delle battute. Le battute…ma al ristorante ha voluto assaggiare tutto come una bambina capricciosa per poi sputare o lasciare tutto nel piatto, che ancora mi vergogno. Ti vergogni! Chissà cosa diventeremo noi fra qualche anno. Ci pensi mai? No, non ci pensava. Non ci poteva, né ci voleva pensare. Mancavano per la precisione quarantaquattro anni per raggiungere la mostruosa età della madre. Sopravvivere, andare oltre il lecito ed il giusto, rompersi un femore, far dannare tutti, cioè soprattutto lei, la glicemia alle stelle che la faceva periodicamente sragionare, dieci farmaci diversi al giorno, prelievi, flebo. La casa di riposo lontana cinquecento chilometri: perché doveva essere speciale anche nel finire i suoi giorni. L’aveva voluto lei: sto bene qui, voglio starci sempre, non solo in vacanza. Con questa gamba vi sarei di impiccio. E così il pellegrinaggio, ogni quindici giorni, a turno, delle tre sorelle. Due giorni d’inferno, lunghe ore al volante da est a ovest. L’unica cosa che le faceva perdere il malumore e la preoccupazione era il paesaggio. Sempre quello, ma mai lo stesso. Adesso cercava con lo sguardo, per la prima volta, sulle colline a vigneto, una cosa di cui le avevano parlato qualche giorno prima: che i contadini mettevano, in testa ai filari, delle rose che modificavano il sentore del vino. Le era parsa una notizia ridicola. Ma ecco, alla base della collina, a filari alternati, dei rosai. Rose gialle, arancioni. Le parve di sentirne il profumo, le parve di vedere l’essenza delle rose penetrare nel terreno e raggiungere i grappoli, ormai maturi, e trasformarne il succo. Sentì una vicinanza immediata con quelle rose, con quelle viti, con quella terra che si allontanava nella nebbiolina di settembre. C’era stato un tempo in cui lei era la rosa e la madre la vecchia vite. Ora lei era la vite, e la madre il vago sentore di rosa che avrebbe sentito per sempre nel vino.
le madri sono essenziali per un’infinità
di inezie bazzecole pinzillacchere e quisquilie
solo loro sanno se il beige va col nero
e se il nero è troppo o troppo poco
come segugi lo apprendono le figlie
fingono indipendenza inalberano caparbietà
poi cercano le madri ne sopportano
lo sguardo di fuoco il piglio battagliero
si fanno piccole e giudiziose
bussano alla porta. le madri sanno
è un gioco stanco che si tramanda
come le ricette più appetitose.
ma per le cose insidiose
che contano pungono fanno impensierire
le madri sono delle inette come se
non avessero vissuto non fossero
state giovani mai. le fanno ammattire
smaniare imbestialire istupidire
le figlie alle madri con i piedi nelle fosse.
*******
Potessi andare al mercato a comprarla
ci correrei: vedi, c’è il sole
che invita a passare tra i banchi e le ceste.
Intenta a cercarla
non potrei non vedere i fiori, i pulcini
morituri dopo le feste – ricordi? -,
e il vestito da niente che a te con poco
starà così bene. Ti comprerei
almeno tre cose: una maglia, un vestito,
un cappello di paglia, ché arriva l’estate.
Li metteresti e io penserei un’altra volta
“guardate!, non è un amore
questa bimba cresciuta?”.
Ma son venuta per cercarti una cosa
sperando la vendano a peso.
Tu l’hai perduta e io non ne ho:
è da un po’ che non se ne vede,
è diventata una rarità:
“scusi, per caso, lei vende
– per la mia figliola ventenne –
un po’ di serenità?”.
*******
imperfetta
sono rimasta a letto
mentre fuori infuriava
la tempesta
neve e grandine e vento
tregenda di nubi bluastre
come all’improvviso
certe sere d’estate.
pensavo alle rose lassù
le vedevo tremare
a ridosso del sottotetto
mi dicevo resisteranno
non voleranno via
sentendo d’essere quasi
una madre indegna
come talora sono
quando non dico
la parola che attendi
lo sguardo azzurro e attento
quando amandoti tanto
mi trattengo al di qua
dei tuoi freschi pensieri.
*******
che stupida cosa
dire: mi manchi!
sei grande e ti basti
io invecchio e mi sento
a tutto insufficiente.
è un ricatto di vecchia
dirti chi sei tu per me?
così ti ripenso, al modo che sai:
ripenso la voce, i riccioli d’oro,
(le parole trite per il ritratto
della mia bambina)
gli occhi così azzurri e sgranati
da volercisi tuffare.
o bei tempi per sempre andati!
grazie
Da: libroguerriero A: patriziadebicke@yahoo.it Inviato: Giovedì 10 Marzo 2016 14:53 Oggetto: [Nuovo articolo] Madri e figlie, di Lucia Tosi #yiv5541069160 a:hover {color:red;}#yiv5541069160 a {text-decoration:none;color:#0088cc;}#yiv5541069160 a.yiv5541069160primaryactionlink:link, #yiv5541069160 a.yiv5541069160primaryactionlink:visited {background-color:#2585B2;color:#fff;}#yiv5541069160 a.yiv5541069160primaryactionlink:hover, #yiv5541069160 a.yiv5541069160primaryactionlink:active {background-color:#11729E;color:#fff;}#yiv5541069160 WordPress.com | Libroguerriero ha pubblicato:”Lucia Tosi, insegnante di italiano e latino, è nata a Venezia, dove si è laureata in lettere moderne a Ca’ Foscari, dopo aver studiato prevalentemente in scuole private religiose in diverse città italiane. Non è di quelli che dicono di sé di aver sempr” | | Rispondi a questo post replicando sopra di questa linea |
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