di Patrizia Rinaldi
(Lapis Edizioni)
Si discute tanto di famiglia e di famiglie, ultimamente, spesso con toni aggressivi e un lessico scarno, riduttivo e perentorio. Molto meno si parla dello spaesamento delle madri e dei padri, dei figli, dei fratelli e dei parenti, scagliati come una manciata di coriandoli nel vento di un presente ad alta velocità, faticoso, dove non solo i ruoli, ma le risposte di ciascuno alle difficoltà sono difformi, contraddittorie, approssimative e talvolta controproducenti. In questo presente scivoloso e tellurico, in cui i piani di realtà oscillano e si sovrappongono, i confini si sfaldano e spostano, e le rigidità vanno in frantumi, ci si dimentica sovente che le famiglie, se proprio le vogliamo chiamare così, sono essenzialmente i luoghi della cura imperfetta, dell’amore imperfetto, del dialogo imperfetto. Patrizia Rinaldi lo sa bene. In questo ultimo romanzo per ragazzi, “Il giardino di Lontan Town”, racconta di un nucleo atipico, segnato dalla morte del padre, e vagamente disfunzionale. Le figure adulte, madre e zia, agiscono male l’amore, intrappolate in un’autoreferenzialità e in un’umoralità esagerate (la madre Donatella), o nelle dipendenze, con tanto di pentimenti e smanie di riparazione (la zia Ludovica). Tra questi due poli femminili, ancorata alla realtà dal buon senso di cui sono carenti le grandi, e allo stesso tempo dotata di una fantasia abnorme e salvifica, la tredicenne Mea funge da apripista nel passaggio dall’Italia a un paese straniero, dalla vecchia vita alle seconde chance. Costretta infatti a vendere la casa alluvionata, la signora Donatella decide, con l’impulsività che la caratterizza, di trasferire la famiglia all’estero, a casa della zia Ludovica. Mea sarà la prima a partire, per non perdere troppe lezioni della nuova scuola a Lontan Town. Decisioni prese senza consultare la figlia. E’ evidente infatti, dalle prime pagine, che i grandi fanno domande e proposte incuranti delle risposte e dei pareri dei ragazzi. Sono distratti, gli adulti di Patrizia Rinaldi, altamente rappresentativi di quelli reali, fagocitati dalle proprie ossessioni, deleganti, quasi afasici, scollati dalla prudenza che invece permea la giovanissima Mea. Questa tredicenne restia a crescere, trasognata, danneggiata dal lutto per la perdita del papà, che è anche sorprendentemente partecipe del mondo in cui è immersa, al punto da avvertire materialmente la crescita dell’erba di un giardino, e le emozioni del prossimo. Fa buon uso della malinconia, la coraggiosa ragazza. Non si sottrae alla faticosa impresa di sostituirsi agli adulti quando è necessario, e di acquisire nuovi strumenti per entrare in contatto profondo con gli altri, come lo studio accanito di una lingua straniera. Rifugge dalla lagna e dall’autocommiserazione. Tanta assennatezza è alimentata dal suo opposto, da un’ingombrante fantasia che consente a Mea di allestire un mondo immaginario in cui trasporre, trasformate in animali, tutte le persone che la circondano. In questo curioso esercizio di fisiognomica animale, la mamma diventa un colibrì, la zia Ludovica una renna, il fratello Ettore un gorilla, il gentile bidello italiano un lama, la smisurata amica del cuore una cavia… E’ così che Mea riesce a cogliere le caratteristiche fisiche e psicologiche di ciascuno, e a interagire con meno timore in un contesto nuovo, alieno, e spesso disorientante. Indimenticabile, questa teenager, capace di trasformare le proprie manchevolezze in risorse: la solitudine in intraprendenza, la malinconia nell’accettazione del limite, il senso di inadeguatezza in assertività. Protagonista di mirabolanti alzate di ingegno, trovate risolutive anche in situazioni di oggettivo pericolo, come la rapina al supermercato. Strepitosa la costellazione dei personaggi minori, mai stereotipati, intagliati da una penna che scava nella psicologia delle creature descritte, insinua elementi perturbanti, documenta il dipanarsi delle vicende. Nessun buonismo, nessuna retorica, inficiano le storie per ragazzi di Patrizia Rinaldi, semmai una bontà, una delicatezza, un’attenzione ai risvolti poetici dei disastri quotidiani. Storie narrate con una scrittura preziosa, inconfondibile, che pur suscitando intense commozioni non conosce smancerie. I giovani protagonisti, spesso segnati da un precoce trauma, come Mea, si trovano a doversela cavare in situazioni irriferibili, alle prese con vessazioni, equivoci. L’aiuto che gli adulti possono dare è relativamente efficace, soprattutto perché i grandi sono una sorta di retroguardia invischiata in nostalgie incurabili, ripensamenti e velleità anacronistiche. Gli affetti, imperfetti e sghembi, restano tuttavia la sola possibilità di comunicare autenticamente, il luogo del farsi incontro e dello scambio. Non importa se a erogarli sono figure che istituzionalmente sarebbero deputate ad altro. Non importano le forme che l’amore prende, purché quell’amore sia cura, sollecitudine e intesa. Così una zia scombinata ma generosa ed empatica può divenire una madre elettiva, un pompiere pentito un amico del cuore, un medico adiposo l’alleato benevolo in una causa di affidamento di minore… E se la propria mamma, nella difficoltà, si dimostra una sorta di strana figlia molesta e lamentosa, è certamente lecito sottrarsi alle sue pretese. Un elogio, questo “Giardino di Lontan Town”, alla giovinezza come tempo di fioriture, di emancipazioni dalle dipendenze, di autoaffermazione e messa a punto della propria identità. Un elogio alla fantasia rifugio, consolazione, arsenale, e prefigurazione della bellezza che comunque ci toccherà in sorte. (Dice infatti Mea, intruppando nell’amore: Certo, lo avrei incontrato lo stesso, pure senza immaginarlo prima. Certo. Ma non sarebbe stato così. Così bello.) E una splendida metafora dell’altrove, talvolta agognato, oppure meta di migrazioni obbligate. Di un’alienità da cui è possibile, e necessario, estrapolare l’universalità dei sentimenti.
Recensione di Caterina Falconi
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