Una lettura del romanzo di Valerio Varesi
“Lo stato di ebbrezza” (Edizioni Frassinelli)
Un libro profondamente etico, il romanzo di Valerio Varesi, “Lo stato di ebbrezza”, che dalla prima pagina scaglia il lettore nella paradossale, carnascialesca e quasi onirica corruzione della politica italiana dagli anni ottanta ai nostri giorni.
Il protagonista, è vero, aggettiva molto, con compiaciuta perizia linguistica, la disapprovazione e la perplessità per i propri agiti. Ma lo fa come se fosse intimamente scollato dalle proprie responsabilità. Come se, dal momento in cui deraglia dal destino deciso per lui dalla madre, al ritorno tra le braccia di una moglie materna, vivesse trasognato, in uno stato di ebbrezza, appunto, spettatore di una recita di cui ha scritto il copione e che interpreta. A un’ulteriore, attenta lettura, si percepisce una divaricazione tra la ferma disapprovazione dell’autore e la lucida anestesia del protagonista, stratagemma narrativo che fa di questo romanzo un libro scevro da moralismo e pedanteria. Domenico Nanni, messo al mondo da una donna previdente e guardinga, e presto orfano di padre, è immesso nel mondo del lavoro proprio dalla madre. La sua prima collocazione, come cronista di nera in un giornale cattolico, riflette una scissione conclamata ai tempi dell’iscrizione al DAMS. La scissione tra una mentalità piccolo borghese, rassicurante ed eteronoma, e la vocazione alla finzione e allo spregiudicato utilizzo delle parole. Presto Nanni intuisce che poco importa la realtà, e molto invece come la si racconta, o rappresenta. Tuttavia, occorrerà l’irruzione di un tentatore, e di un detonatore femminile, perché decida di mettere il proprio talento nel contraffare la realtà, nel generare illusioni, nell’incantare, al servizio del potere. Giacché è la cortigianeria il vizio cronico degli intellettuali e Nanni, che è un esemplare della categoria, non farà eccezione. Intanto il mondo attorno a lui inizia a mutare. E l’informazione (di cui Nanni, ancora impastoiato nei timori materni e dalle proprie radici, è un rappresentante) vira dalle parole scritte all’immagine televisiva. Dal concettuale alla rappresentazione. Dalla spiegazione al voyeurismo.
Ben comprendono la portata di simili mutamenti i politici, raffigurati nel romanzo in una galleria di personaggi indimenticabili, vagamente caricaturali, che molto richiamano i protagonisti delle fiabe. E non a caso: un rimando sottile al fiabesco, a una nostalgia e a un bisogno di infanzia è presente in molte pagine. Lo stesso Nanni, privato della mediazione paterna tra sé e la realtà, sottratto alla madre dalla fascinazione per una donna che pare l’incarnazione della gioia ingorda e della vitalità, non diventerà mai compiutamente adulto. Geniale manipolatore sì, affabulatore, illusionista, imbattibile nell’infiocchettare gli interessi di pochi facendoli addirittura sembrare volti al bene collettivo, parolaio, ma quasi incapace di scelte definitive ed etiche, come un bambino appunto. E quando Giorgio Calcaterra, pezzo grosso delle cooperative invischiato nella politica, gli propone di abbandonare il giornale e di farsi pubblicitario e ghostwriter di onorevoli e celebrità, Nanni accetta, motivato anche dalla curiosità di sperimentare fino a che punto possa spingersi una deformazione strumentale della realtà. E forse dalla sottile tentazione all’onnipotenza che attraversa ogni scrittore, creatore secondario.
Trascinato dalla vitalità e dalla sensualità senza remore della compagna Susanna, donna votata all’immanenza, scivola distrattamente nel gorgo di imbrogli, rapine istituzionalizzate e demolizione di senso perpetrati dalla classe politica negli anni ottanta. Seguono le descrizioni divertite e sconcertanti delle orge del potere al riparo degli schermi televisivi, orchestrate e agite soprattutto da un partito socialista trasformista e arraffone a cui fanno da contrappunto un comunismo patetico, nella sua scabra tristezza e quasi ascetica coerenza, e un coro mutevole di forze politiche sempre più afasiche e volgari. Nanni si rende complice della grande opera di impoverimento e distorsione del linguaggio collettivo, mentre le televisioni, che hanno presto deposto il loro intento didattico, diventano erogatrici di illusioni e istigatrici dei peggiori istinti. In questo sradicamento, personale e collettivo, in questa immane rimozione dei vissuti e della storia, in questa irreparabile mutazione antropologica, un niente ridondante ammanta la rapina che apre falle nell’economia del paese, consegnando i partiti irrimediabilmente collusi con le mafie e la malavita, e i cittadini depredati, alla disincarnata, famelica egemonia della finanza. E’ come una danza, il ritratto degli anni ottanta e del loro scivolare nella decadenza, che da sfrenata e godereccia si fa via via più tetra. Persino Nanni, dapprima eccitato, divertito da tutto quell’insufflare parole menzognere e alibi, diventa sempre più perplesso e cupo. Fino al crollo della politica, siglato dalla caduta del muro di Berlino e, in ambito privato, dalla morte della madre.
Da quel momento in poi, Nanni, da sempre dotato di un provvidenziale callo di ignavia, si lascia trascinare dall’abbrivo residuo delle trascorse performance, fino a un imprevisto arresto. Da un capo all’altro delle due parabole intrecciate, la personale e la collettiva, una costellazione di personaggi quasi archetipici. Giorgio Calcaterra, dal nome e cognome appesantiti dalle zolle, animato da un’inconfessata invidia per la finezza intellettuale, un tentatore tanto simile al postiglione del Paese dei balocchi di collodiana memoria. Tugnoli, il compagno operaio che incarna in qualche modo la coscienza di Nanni, una sorta di grillo parlante attenuato e dibattuto tra ira e autocommiserazione. L’ipocrita e vile Giandebiaggi, politico apostata avvezzo a complottare nell’ombra. Il più sanguigno e famelico Gardenghi, assessore in carriera. Cavicchi, l’anziano giornalista cinico e perduto, sostituto paterno per Nanni. E infine il lungimirante Corlaita, rigettato dal mondo finanziario e profeta del futuro che l’accelerazione della tecnologia sta già partorendo.
Questi i compagni di intrallazzi di un Nanni destinato alla ineluttabile condizione di orfano, e forse mai veramente pentito, che dalla premura della madre e successivamente avvinto a Susanna, muove i primi frenetici passi, li accelera, e improvvisamente è dimezzato da una fatalità. In questa sua ultima metaforica e concreta condizione di impotenza, non gli resta che affidarsi ad una donna che replica, con la sua dedizione, l’amore materno, incondizionato e accuditivo.
Un romanzo bello, caustico, sghembo, “Lo stato di ebbrezza” di Varesi. Colto, intelligente e ironico. Traboccante di una prosa forbita, pertinente, divertita. Difficile da riassumere. Difficile da scandagliare nei suoi innumerevoli piani narrativi. Da sottolineare, questo sì, come uno dei testi su cui si è formato Varesi, laureato con una tesi su Kierkegaard, il filosofo del dolore. Approdato successivamente a un’apparente leggerezza. Maestro del sorriso sul disastro. Di una garbata disamina, in punta di penna, delle questioni sociologiche, e della politica nella sua versione più colta. Ecco, a conoscerlo così, attraverso le peripezie di Nanni, viene proprio voglia di leggere gli altri suoi libri.
Caterina Falconi
bacio
anche a te, smackckck